giovedì 20 dicembre 2012

SUD: L’INDUSTRIA HA BISOGNO DI TANTA ENERGIA A COSTI RAGIONEVOLI



Serve una riflessione scientifica, onesta e “no-nimby” sul mix delle fonti, compreso il carbone
 


La Memec di Merano, ditta che produce silicio, ha recentemente vagliato la possibilità di ottenere una fornitura di elettricità dall’Austria, cercando di risolvere il problema della salata bolletta che le imprese italiane sono costrette a pagare. Il tentativo al Nord è giustificato dalla vicinanza geografica con altri mercati dell’energia (anche se fallirà per questioni normative e tecniche), mentre nel Meridione non è un’opzione percorribile (almeno nel breve-medio periodo, considerando ad esempio i progetti di interconnessione con la produzione da rinnovabili in Africa, che richiedono tempi lunghi).

Per le ditte nel Mezzogiorno (piccole, medie o grandi che siano), dunque, è urgente trovare una soluzione concreta ed alternativa, poiché il costo alto dell’energia rappresenta una delle motivazione principali che porta le aziende in crisi a chiudere o delocalizzare. Una problematica riproposta negli ultimi mesi ogni qual volta si apre o s’inasprisce una vertenza industriale al Sud: Ilva, Sulcis, Irisbus, solo per citarne alcune, «ma anche Enel o Edipower, laddove si potrebbero considerare riconversioni per utilizzare impianti e insediamenti produttivi altrimenti obsoleti e/o economicamente non più praticabili: es. Rossano Calabro (CS), Brindisi Nord o San Filippo del Mela (ME)», come spiega Rinaldo Sorgenti, vice presidente Assocarboni. Dunque, urge una via d’uscita dallo stallo della situazione che possa far sentire i suoi effetti in un periodo ragionevolmente breve, poiché la crisi industriale (e quindi occupazionale e sociale) è giunta ai livelli record che nel Sud tutti conoscono.

Il Governo uscente ha impostato una strada maestra valida per l’intero Paese, identificata nella Strategia Energetica Nazionale (SEN). Un documento ritenuto nel complesso positivo da molti opinionisti, costituito di intenti (molti e variegati) e strumenti (da più fronti giudicati pochi e non ben definiti) che dovrebbero aiutare a uscire dall’attuale recessione e indirizzare il futuro del Paese in questo fondamentale settore, seppur con iniziative (da amalgamare per la differente natura di alcune) i cui effetti che non si vedranno certamente in un raggio di tempo breve e atto a tamponare le difficili situazioni che si manifestano oggi nel Mezzogiorno con tutta la loro drammaticità.

C’è un aspetto all’interno della SEN che viene totalmente trascurato rispetto ad altri e che nel Sud, invece, dovrebbe aprire una riflessione seria sulla possibilità di produrre energia a minor costo, creando le condizioni per sostenere la competitività del comparto produttivo: l’uso del carbone nella generazione elettrica. Non una panacea di tutti i mali del sistema energetico nazionale, certamente, ma comunque un tema sul quale, come spesso accade in Italia, manca una riflessione informata e avulsa da “istinti di pancia” o populismo; in sintesi, un confronto fatto su basi scientifiche e tecniche che dovrebbero costituire le fondamenta imprescindibili quando si trattano argomenti come l’energia, soprattutto quando impattano sulla vita delle persone e il benessere in un Paese sviluppato.

Proprio nell’ultimo periodo due casi hanno rianimato questo tipo di dibattito nel Meridione: l’importante centrale a carbone di Cerano (Brindisi Sud) e quella che si vorrebbe costruire a Saline Joniche (RC). Due casi differenti (dei quali ci interessa l’aspetto “energetico” e quindi di sviluppo, non altri sui quali non entreremo nel merito, ndr), che hanno in comune un’opposizione locale di alcuni gruppi sociali, associazionistici o istituzionali; come nel caso di Greenpeace, che ha deciso di affiggere dei manifesti nella città pugliese che associano delle immagini di bambini, purtroppo ammalati di varie patologie, a quelle della centrale. L’iniziativa ha suscitato non poche polemiche ed è stata così spiegata dagli autori: «Con questa campagna intendiamo richiamare l’attenzione su un dato che non deve essere mai dimenticato: gli impatti sanitari delle centrali a carbone di Brindisi, come quelli di qualsiasi impianto alimentato con la stessa fonte, sono enormi; e la popolazione più esposta a quei mali sono i bambini, spesso colpiti dagli inquinanti ancor prima di nascere», dichiara Andrea Boraschi, responsabile della campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia.

Secca la replica, a titolo personale, di Rinaldo Sorgenti (peraltro, come citato, anche vice presidente Assocarboni): «È semplicemente vergognosa e spudorata l’azione di questi signori. Utilizzano l’immagine dei bambini evocando problemi di salute e lasciando surrettiziamente intendere che è la centrale a essere la causa delle patologie. Una cosa inqualificabile». Poniamoci allora qualche riflessione al dt. Sorgenti.

La prima valutazione da fare, inevitabilmente, è quella sugli effetti per la salute di una centrale termoelettrica: quali rischi ci sono?  
«Il problema è che si demonizza il carbone a prescindere. La centrale di Brindisi Sud è un impianto non nuovissimo ma efficiente, come tanti altri in Europa, che ha tutte le caratteristiche per rispettare le regole ambientali e di emissione previste per questo tipo di attività produttiva dalla stringente legislazione europea; dunque: desolforatori, depolverizzatori, denitrificatori,  etc. che consentono di limitare al minimo le emissioni potenzialmente nocive in atmosfera. Il supposto problema nasce quando si demonizza il prodotto, senza considerare la tecnologia,  e si ascia intendere che gli operatori siano degli sconsiderati, che non rispettano le leggi europee e italiane».

Ma le norme europee sono sufficientemente avanzate per tutelare la salute delle persone che vivono nei pressi di una centrale che produce elettricità attraverso il carbone?
«Certamente lo sono, diversamente si dovrebbero accusare tutte le istituzioni europee, soprattutto quelle predisposte alla salvaguardia della salute delle persone, come la WHO - World Health Organization. Le regole sono molto restrittive e le emissioni sono abbondantemente sotto di esse. Tali norme europee, molto ferree e rigide, sono poi ampiamente monitorate in continuo nell’applicazione da parte delle Autorità competenti locali. È importante conoscere tecnologicamente questi impianti, altrimenti non avremmo nessuna attività industriale e produttiva che utilizza combustibili fossili, elementi fondamentali per conservare il benessere nei paesi sviluppati. Quando si parla del carbone si dovrebbe ricordare che la sua origine è, indubitabilmente,  il mondo vegetale e i componenti del carbone non possono essere che quelli del prodotto che gli ha dato origine. Facendo un confronto con altri paesi, prendiamo la Germania, una realtà che fa sempre da riferimento per tutto, in qualsivoglia attività industriale; ebbene, produce il 42% dell’elettricità dal carbone, cioè, in proporzione, sette volte di più di quanto si faccia in Italia, visto che la Germania produce il doppio dell’elettricità rispetto a noi. Se le dichiarazioni che fanno coloro che hanno agito a Brindisi fossero veritiere, evidentemente la Germania dovrebbe essere un “lazzaretto”, cioè un luogo insalubre e impedito alla residenza e al transito per chiunque, dati i teorici problemi ambientali e di salute che causerebbe la produzione elettrica locale. Chiaramente non è così».

Volendo approfondire il discorso sulla salute pubblica, prima di considerare gli aspetti economici e sociali connessi a questa attività produttiva, va detto che delle emissioni dovute alla produzione elettrica ci sono, come sottolineato dalle associazioni ambientaliste.
«Dire che le molteplici attività produttive non abbiano alcun impatto ambientale è certamente non vero. La questione è valutare l’incidenza di una data attività in un dato settore, nel contesto in cui viviamo. Ovviamente, il buon senso vorrebbe che si focalizzasse l’attenzione su tutte le attività produttive e anche civili presenti nei vari luoghi. Per esempio: la produzione di cemento, acciaio, carta, metalli o la raffinazione del petrolio, il traffico veicolare, le emissioni dovute al riscaldamento civile, il fumo di sigarette; solo in quest’ultimo caso, moltiplicando le emissioni di una singola sigaretta per tutti i fumatori in una città o provincia, si raggiungono emissioni largamente superiori a quelle di un impianto industriale presente nella stessa area. Quando si demonizza una singola fonte, senza avere una minima conoscenza delle tecnologie che la riguardano, altrimenti è come guardare al dito mentre si indica la Luna. Tra le varie attività produttive, quella termoelettrica in impianti tecnologicamente avanzati è tra le meno impattanti in assoluto».

La tesi dell’impatto ambientale è stata ripresa da diversi soggetti, ad esempio dal governatore della regione Calabria in riferimento alla possibilità di realizzare una centrale a carbone a Saline Joniche, seppur in presenza di tecnologie molto avanzate.
«Innanzi tutto bisognerebbe domandarsi cosa vuol dire “inquinante”. Ad esempio, non avrebbe senso demonizzare anche una sola particella, perché anche se si va semplicemente in  motorino si inquina. Quello che conta sono le emissioni complessive, considerate in assoluto dalla normativa UE per la salvaguardia dell’ambiente e della salute. In particolare, un modernissimo impianto come quello proposto per Saline J. avrebbe tutte le caratteristiche di salvaguardia richieste dalle leggi, andando ampiamente sotto i limiti richiesti». 

(Sempre in tema di emissioni e di tecnologie, vi è l’argomento CCS - cattura e stoccaggio della CO₂, un ulteriore aspetto da prendere in considerazione, che sarà affrontato da questo blog a breve, ndr).

Volendo allargare le valutazioni ad altri aspetti, l’Italia ha oggi un “mix delle fonti” per la produzione elettrica fortemente basato su due elementi: gas naturale e rinnovabili. Il carbone, dalla sua, ha un costo molto più basso della materia prima, unito a una favorevole condizione per l’approvvigionamento nel Sud Italia. Un vantaggio competitivo per il Mezzogiorno?
«Più che favorevole. Siamo immersi nel Mediterraneo e raggiungere un porto del Sud significa minori giorni di navigazione rispetto al portare lo stesso prodotto nei porti del Nord Ovest o Est del Paese. Il carbone è del tutto trasportato via mare, un aspetto logistico che lo fa preferire a qualsiasi altra fonte dal punto di vista ambientale e della sicurezza, come specifica anche la IMO “International Maritime Organization”. Tra i principali esportatori del carbone ci sono Indonesia, Australia, Sud Africa, Russia, Stati Uniti, Colombia, Venezuela».

L’opzione del carbone nel mix di produzione elettrica nazionale non è alternativa o sostitutiva di altre fonti, particolarmente le rinnovabili, che restano un volano fondamentale per lo sviluppo nazionale ed europeo?
«Esattamente l’opposto! La generazione elettrica da carbone è del tutto complementare a quella delle fonti rinnovabili, per ragioni tecniche, economiche e di vera sostenibilità. La razionalità,  infatti, dovrebbe insegnare che in ogni territorio andrebbe realizzato il miglior mix energetico possibile per quella realtà, in un dato periodo, seppure ragionevolmente lungo, non in assoluto, guardando con rigore scientifico e tecnico a tutte le fonti di energia - nucleare compreso, ma questa è “un’altra storia” che sarà affrontata da questo blog -. Le soluzioni da adottare non devono però mai perdere di vista la necessità assoluta di poter disporre dell’elettricità, abbondante e a costi ragionevoli, sempre e dove serve. Tenuto conto della non programmabilità della generazione elettrica da solare ed eolico, è evidente che occorra un’opportuna diversificazione e equilibrio nel mix di generazione presente nei vari luoghi. Ipotizzare che al Sud, ad esempio, vi possa essere solo eolico, biomasse o fotovoltaico non avrebbe letteralmente senso, perché vorrebbe dire mantenere o far regredire quelle aree a condizioni inadeguate e inaccettabili per le stesse popolazioni, oltre a creare gravi condizioni di sostenibilità per lo stesso Paese. Ogni scelta deve sempre essere fatta con rigore scientifico, onesta morale e senza la negativa influenza ideologica del “nimby”!».

Realizzare centrali a carbone nel Sud, dunque, rappresenta una possibilità di rilancio industriale per il territorio, grazie a energia più a buon mercato?
«Certamente sì. Prima di tutto bisogna considerare che l’Italia è una “banchina” in mezzo al mare e quindi costruire una centrale termoelettrica a carbone localizzata vicino alla costa permette di avere facile disponibilità di acqua per il semplice raffreddamento degli impianti nel loro ciclo operativo. Inoltre, se si guarda alla borsa elettrica per le attività produttive, in Sicilia ad esempio si paga l’elettricità a un prezzo del 50% circa più elevato rispetto al “continente”, proprio perché non si usa anche il carbone, ma combustibili fossili  e sistemi  diversi e più costosi. Questo non aiuta la nascita di attività produttive, così come in altri territori del Sud. Molti obiettano, come in Calabria, con questa argomentazione: “Ma noi produciamo più energia di quanta se ne consuma”; questo mostra solo che quello è un territorio tra i meno sviluppati del Paese e con un indice di benessere più basso, espresso da una domanda minore di elettricità».

La questione non è consumare meno, ma produrre e consumare meglio (efficienza energetica) e a costi più bassi possibili.
«Il poter disporre di elettricità abbondante e a prezzi ragionevoli è il principale volano di qualsiasi attività produttiva, oltreché dello sviluppo e del benessere nelle società avanzate. A dimostrazione di ciò il fatto che in tutti i Paesi più avanzati del Mondo la produzione elettrica è fatta principalmente  con il carbone, talvolta abbinata con il nucleare. Questa è la realtà per 7 dei Paesi G8. Lascio al lettore di indovinare quale sia l’ottavo… O sono tutti folli gli altri, oppure c’è qualcosa di fondamentale e non compreso in Italia».


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lunedì 26 novembre 2012

A SUD DEL SUD LE AZIENDE ITALIANE SCAMBIANO TECNOLOGIE PER ENERGIA



Generazione distribuita Vs energia dal Mediterraneo, tra i due litiganti il terzo (forse) gode: l’industria del nostro Paese e in particolare del Mezzogiorno. Negli ultimi anni abbiamo capito e toccato con mano che, principalmente grazie all’avvento delle fonti di energia rinnovabile (fer), l’energia termica e quella elettrica si generano sempre meno nelle grandi centrale (dislocate in pochi punti sul territorio), ma sempre più in piccoli impianti posizionati vicino ai centri di consumo (sui tetti delle fabbriche o non lontano dai centri abitati).

Parallelamente, una strategia meno nota si è affermata, quella dell’energia dal Mediterraneo (parafrasando anche il noto testo di Roberto Vigotti, Energia dal deserto). Si tratta della possibilità di produrre elettricità nel Nord Africa (e non solo), dove c’è grande disponibilità di spazi e dove è più semplice generare in grid parity (cioè in maniera competitiva rispetto all’uso di fonti fossili, data l’enorme forza delle risorse naturali come sole e vento, che permettono di produrre senza bisogno un gap economico rispetto alle altre fonti). L’energia prodotta, poi, si potrà esportare verso l’Unione europea costruendo elettrodotti e infrastrutture di connessione, come già accaduto (e ancora in divenire) per l’export del gas naturale. 

La generazione distribuita nei pressi dei centri di consumo è una visione sostenuta, tra i tanti, dalla European Photovoltaic Industry Association (che ha diffuso lo scorso settembre il report “Connecting the sun: HowEurope’s electricity grid can integrate solar photovoltaics”). Sul fronte opposto, le potenzialità e l’interesse per il consumo europeo di energiaimportata dall’Africa del Nord sono stati approfonditi nel recente rapporto annuale "Le relazionieconomiche tra l'Italia e il Mediterraneo" del centro Studi e Ricerche per il Mezzogiorno - SRM.

Ho approfondito le potenzialità di mercato del secondo modello con Alessandro Panaro, dirigente reparto ricerche infrastrutture SRM. «Noi abbiamo due filoni di ricerca che seguiamo con attenzione: i trasporti e la logistica; le public utilities, con particolare riferimento alle risorse idriche e all’energia. Anche da qui nascono la terza parte del rapporto e due dei temi che abbiamo privilegiato: il trasporto marittimo e le rinnovabili».

Lo sviluppo delle fer in Nord Africa è una risorsa per quei Paesi in termini di sicurezza energetica; occorre però capire anche cosa rappresenta per le altre realtà del Bacino mediterraneo e in particolare per l’Italia, pensando anche a progetti come Desertec o Medgrid (i concreti piani industriali che puntano a creare le infrastrutture per generare e trasportare l’energia dai Paesi Nord Africani verso l’Europa).

«Io credo - prosegue Panaro - che le opportunità siano di tre tipi. La prima riguarda la strumentazione, perché questi paesi sono privi di un requisito fondamentale per sviluppare le rinnovabili: la tecnologia stessa; gli Stati che meglio sapranno vendere tecnologia su queste piazze avranno grandi vantaggi. Se prendiamo in considerazione l’Italia, essa è chiaramente carente in fabbricazione e sviluppo di tecnologie. Il problema è ancor più grande se si considera il solo Mezzogiorno, dove è concentrata la maggior quota delle fer (il 98% della produzione eolica nazionale). In un territorio che ha vento e sole, si può pensare che siano nate anche imprese che sfruttino queste risorse producendo tecnologie, invece siamo andati a chiederle all’estero. Certo, anche in Italia ci sono e soprattutto stanno nascendo ottime realtà, ma non possiamo dire di avere una filiera consolidata».

Se si vuole cogliere questa prima opportunità, dunque, «dobbiamo porre rimedio, paesi come Germania, Danimarca o la stessa Cina sono avanti». un mercato che riguarda sia l’implementazione di tecnologie per gli impianti di rinnovabili, sia per lo sviluppo delle reti: «La Turchia ha dei flussi solari potentissimi, particolarmente nel Sud, ma manca una vera rete energetica. Dovranno prima di tutto pensare a potenziarla, poi si potrà parlare di esportazione dell’energia».

La seconda opportunità è invece a carattere logistico, legata cioè al «trasporto di quella stessa tecnologia verso l’Africa. Tutti i materiali per gli impianti rinnovabili e soprattutto per le reti che li connetteranno andranno esportati in queste aree attraverso consolidate reti logistiche. Il Mezzogiorno d’Italia avrebbe le potenzialità per farlo». Basti pensare «ai grandi porti del Sud. Dai nostri studi è sempre emerso un grande traffico marittimo ben sviluppato in essi, considerando anche le diseconomie che le nostre strutture portuali devono affrontare rispetto a quelle estere - come per i problemi burocratici e di ammodernamento, basti pensare all’elettrificazione delle banchine o alla riconversione per le navi alimentate a gnl -. Se non sosteniamo il nostro sistema dei trasporti marittimi l’Italia è destinata a perdere di competitività».

Un esempio è a Taranto, dove uno dei più grandi produttori di turbine eoliche, la danese Vestas, ha realizzato uno stabilimento produttivo «che sfrutta il vicino porto per inviare le proprie tecnologie»

Infine, l’opportunità finanziaria. «Occorre individuare - conclude Panaro - quali tipi di flussi andranno a sostenere il piano molto ambiziosi che stanno emergendo, di cui molti sono stati analizzati nel report SRM. Dunque, si punterà su investimenti stranieri o interni? Questo è un mercato che va sondato».

In sintesi, dunque, il fatto che nei Paesi meridionali del Bacino mediterraneo si stiano sviluppando forti piani di produzione di energia rinnovabile è un’opportunità per quelle aziende che sapranno offrire loro know-how e tecnologie per realizzare gli impianti, oltre alle reti che potranno integrarli nel sistema elettrico di questi Paesi.

Inoltre, queste realtà si candidano a diventare esportatori di energia e la realizzazione delle grandi connessioni di trasporto, inevitabilmente candidate a passare per il Mezzogiorno d’Italia (così come accade, in parte, per le pipeline del gas), costituiscono sia un mercato fisico di produzione e realizzazione delle reti, sia un mercato economico in termini di approvvigionamento dell’energia a un prezzo potenzialmente migliore; è noto quanto il costo dell’energia sia forse il principale problema che ostacola la sopravvivenza delle aziende nel Sud Italia e la nascita di nuove.

Infine, l’opportunità finanziaria per quelle realtà di settore che vorranno credere in questi progetti investendo in prima persona. Non tutte queste condizioni di opportunità si verificheranno con certezza, probabilmente la maggior parte ma con gradi e livelli differenti. Resta l’evidente potenzialità che le imprese del Meridione, sfruttando in primis la “fortuna geografica” (per una volta), che devono provare a cogliere.

Resta la strategia della generazione distribuita nei pressi dei centri di consumo. Questo è un processo probabilmente irreversibile che non esclude l’altro. Ma proprio perché già avanzato ha fatto già  i conti con varie problemi: la mancanza di grid parity che ha portato ai sistemi di incentivazione che pesano in bolletta (dovuti anche a problemi di cattiva gestione), la necessità di investire sullo sviluppo delle reti di distribuzione verso le smart grid (reti intelligenti che associano gli usi convenzionali alle possibilità offerte dalle infrastrutture ICT, soprattutto nel campo del controllo e risposta della domanda), l’assenza di una reale politica energetica europea. Non tutto è perduto, ma probabilmente nuovi orizzonti dovranno essere aperti da uno sviluppo tecnologico ulteriore, che non può prescindere dal sostegno alla ricerca; quella stessa ricerca in cui eccellono le tante menti del Sud, troppo spesso protagoniste delle fughe verso un Nord lontano da tutto, anche dal Mediterraneo.


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lunedì 5 novembre 2012

C’E’ ANCORA MOLTO LAVORO NELL’EOLICO MA OCCORRE SAPERE DOVE CERCARE




Lavorare con l’eolico si può e, dopo lo sviluppo occupazionale registrato negli ultimi anni, nel prossimo futuro sarà importante scovare le aree di maggiore interesse e opportunità. In virtù dell’evoluzione normativa che il comparto eolico sta assumendo, sempre più importanza acquisirà non solo la capacità di realizzare impianti innovativi, ma quella di saperli gestire nel migliore dei modi, con efficienza, così come per quelli già esistenti. È in questo ambito che saranno ricercate le professionalità in cui giovani del Sud (tra i più specializzati e professionalizzati in Italia) possono trovare occasioni lavorative nel mondo dell’energia.

Come spiega Simone Togni, presidente dell’ANEV - Associazione Nazionale Energia del Vento: «Il vento è al Sud. Le società che si occupano di realizzare impianti, quelle storiche e più importanti, hanno da subito capito che per un’attività sul territorio di questo tipo fosse necessario e giusto utilizzare manodopera locale, spesso giovani di valore del Mezzogiorno, perché più facile già dal punto di vista logistico. Dallo studio ANEV-UIL 2012, al 2020 potremmo arrivare a 67mila occupati nell’eolico (oggi 39mila), con un terzo di posti di lavoro stabili e non soltanto legati al periodo di costruzione. Lavoratori fissi nel settore gestione, Operating and Maintenance e manutenzione - quindi di “service” per impianti - che nel complesso arriverebbero a 25mila addetti (oggi 12mila). Altrettanti quelli di costruzione e installazione». I lavoratori afferenti al “service” «sono il principale ritorno occupazionale, quello più vero e più stabile, con un impianto eolico che ha una vita in media di venti anni. Posti di lavoro per lo più con specifiche tecniche molto elevate che sempre più potranno essere un plus per i giovani che vorranno impegnarsi».

L’eolico è da sempre una risorsa del Mezzogiorno. Molte le ricerche e gli studi che descrivono la  capacità nel Sud di produrre energia rinnovabile dal vento. Tra questi il Rapporto 2012 di Legambiente “Comuni Rinnovabili” spiega: “Sono 6.912 i MW eolici installati in 450 Comuni italiani. Le torri eoliche con potenza maggiore di 200 kW (grande eolico) si concentrano nel Sud e sono presenti in 271 Comuni: il 3% del totale dei comuni italiani, a dimostrazione di come il possibile impatto di questi impianti rispetto al paesaggio italiano abbia riguardato un’area molto limitata del Paese. Per gli impianti sotto i 200 kW (piccolo eolico), questi sono presenti in 246 comuni, di cui 118 al Sud”. 

La stessa presenza territoriale delle pale eoliche, però, ha generato non poche polemiche negli ultimi anni, dettate dall’ansia di veder nascere impianti in aree protette o dall’alto valore storico o ambientale. In tal senso più volte sono state date rassicurazioni da pare degli operatori e delle associazioni di categoria, sottolineando i vari protocolli sottoscritti che scongiurano la possibilità per lo sviluppo di un eolico selvaggio. Protocolli cui seguono controlli, affinché le parole non restino al vento (è il caso di dirlo). Gli esempi sono proprio nel Mezzogiorno e certificano l’applicazione dei principi stabiliti. È notizia di pochi giorni fa infatti la bocciatura da parte di Legambiente di un parco eolico intercomunale nell’area del Gargano in Puglia. 

Detto dei controlli e delle corrette eccezioni, sarà importante per il futuro rendere sempre più partecipi e consapevoli le comunità locali, potenzialmente ospitanti di nuovi impianti, della bontà delle opere eoliche soprattutto in termini di ritorni occupazionali sul territorio. Ciò, allo scopo di non perdere l’ennesima occasione si generare economie al Sud per motivi più o meno futili, come l’esteticità di una pala (da molti ritenuta invece un valore aggiunto e positivo per il paesaggio), soprattutto in aree dove lo stesso scenario non è certo indimenticabile, come sulle tante dorsali stradali del Meridione.

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